[ a cura di L. Lenzini, Castelvecchi, Roma 2015 ]
La pubblicazione di I confini della poesia costituisce senza dubbio un’operazione utile e meritoria, perché rimette in circolazione due interventi di Fortini tanto ricchi quanto trascurati. Entrambi gli scritti rielaborano delle conferenze tenute dall’autore di fronte a un pubblico di studenti universitari: il primo, eponimo dell’intero volume, risale al 1978 e ha carattere prettamente teorico, mentre il secondo – intitolato Metrica e biografia (1980) – mescola la riflessione astratta alla testimonianza personale (con autoesegesi e informazioni sull’iter variantistico). Essendo stati inizialmente concepiti per una fruizione orale, i due testi si segnalano per un’affabilità eccezionale all’interno dell’arduo corpus fortiniano; proprio per questo, essi possono rappresentare una chiave d’accesso privilegiata alle poesie e ai saggi di uno tra i massimi intellettuali del secondo Novecento.
Al di là di questi dati occasionali, cos’è che accomuna i due articoli, rendendo opportuno – anzi, proficuo – il loro accostamento? Come si evince già dai titoli, la loro cifra unificante sta nella dialettica tra opera e mondo, tra testo (inteso come un organismo chiuso) e contesto (inteso come l’insieme delle condizioni psicologiche, culturali e storico-politiche). Da una parte ci sono la misura, l’ordine metrico, il sense of an ending; dall’altra il disordine e l’incommensurabile. Se, per certi versi, Fortini intende rimarcare la frontiera tra questi due ambiti, il suo obiettivo principale risiede nella loro articolazione reciproca, nel bruciante cortocircuito «fra i contratti sindacali» e «una canzone del Petrarca». Di conseguenza, ogni pratica ermeneutica che non si interroghi sulle relazioni tra letteratura e «rapporti di produzione» non può che rivelarsi parziale e inadeguata.
La peculiarità dell’approccio fortiniano, d’altronde, coincide proprio con la capacità di istituire legami inaspettati tra «funzione poetica» e referenzialità, tra dettagli retorico-prosodici e vaste campiture epocali, tra scelte stilistiche e posizioni ideologiche. A questo tratto bisogna ricondurre sia la sua avversione all’ermetismo, il suo rigetto per qualsiasi settarismo specialistico, sia le sue riserve nei confronti di ogni engagement contenutistico ed edificante. Anzi, è proprio dall’incontro tra consapevolezza della natura cerimoniale della scrittura, memoria della tradizione, e inserimento dell’estetica in un orizzonte “comunista” che nasce la concezione figurale della poesia propria del pensiero fortiniano. In altre parole, amalgamando originalmente l’aspirazione all’integrità umana della linea Goethe-Lukács e la lezione dei francofortesi, Fortini valorizza la carica pedagogica e allegorica dell’opera d’arte: la sua compiutezza, difatti, non vale solo come promesse de bonheur, ma anche come modello di formalizzazione della vita, come appello affinché le classi più sfruttate controllino e direzionino la propria esistenza alienata ed entropica. Nel campo della critica, queste riflessioni si traducono in una stigmatizzazione dell’antistoricismo fomentato, in quegli anni, dalla vague nietzschiano-heideggeriana, da un certo strutturalismo e dal decostruzionismo. In opposizione al formalismo asettico e al vitalismo irrazionalistico, in contrasto con l’assolutizzazione dei segni o della spontaneità, Fortini propone un metodo che riesca a mediare tra questi estremi e che sappia prendere in considerazione le istanze della sociologia e della storia della ricezione. Allo stesso tempo, egli insiste sul carattere ambivalente della letteratura, scissa tra contemplazione, invito alla conciliazione, e utopia, spinta al mutamento radicale. Di fronte a un neocapitalismo così pervasivo da colonizzare l’immaginario, davanti ai «fantasmi» emanati dalla società dei consumi e dello spettacolo, Fortini ammette il tramonto della «via estetica all’umanesimo»; ciononostante, egli ribadisce fino all’ultimo l’esemplarità della poesia in quanto ascesi e selezione, organizzazione di ricordo e prospettiva, connessione di passato e futuro. Probabilmente, è da qui che oggi occorre ripartire.
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